Alcuni dolcetti tradizionali delle feste natalizie sono andati perdendosi un po’ in tutta la Liguria. Si sono salvati solo in alcuni piccoli villaggi, segno di un forte radicamento legato all’identità locale.
Ad Airole, un borgo di circa 380 abitanti, incastonato fra le montagne della Val Roia (IM), resiste la tradizione natalizia delle mariete e dei galeti. La vigilia di Natale, gli abitanti del borgo accendono il grande forno a legna per cuocervi questi dolcetti da regalare ai bambini. Intanto, nelle case si prepara l’impasto di farina, lievito, poco zucchero, burro, uvetta, latte, olio d’oliva e acqua. Lavorati gli ingredienti a formare una pasta omogenea, si modellano le mariete e i galeti, le prime come piccole bamboline da regalare alle bimbe, i secondi come veri e propri galletti riservati ai maschietti. Rifiniti e decorati con le mentine, i dolcetti si lasciano lievitare per il tempo necessario, poi si infornano a circa 180°C per una mezzora. Infine, una volta raffreddati, si spennellano col marsala per poi cospargerli di zucchero in superficie. In passato l’usanza prevedeva che a prepararli fossero i padrini o i nonni dei bambini, i quali li avrebbero donati ai piccoli la sera della vigilia di Natale. Tuttora, il 24 dicembre, nella piazza del paese si distribuiscono i galeti e le mariete accompagnati da una tazza di cioccolata calda da gustare attorno al falò.
Questa bella e singolare tradizione trova un riscontro storico nel Vocabolario Genovese-Italiano compilato da Giovanni Casaccia a metà Ottocento. Alla voce Fantinetta, infatti, corrisponde la seguente definizione: Piccola figura di pasta che vendesi da cialdonaj (negiæ). In particolare, quelle bamboline erano prodotte e rivendute durante tutto l’anno dagli ambulanti del tempo, probabilmente come accadeva per il pandolce “basso”, che pur essendo un dolce natalizio, come ricorda Giovanni Ratto, vendesi tutto l’anno dai pasticcieri.
Proprio di fantinn-e si parla nelle comunità tabarchine di Calasetta e Carloforte, dove le antiche tradizioni liguri rimangono tuttora vive e praticate. A Natale si preparano queste bamboline di pasta di pane, leggermente addolcita, glassata e decorata in superficie, riservate ai bambini. E perfino in certi paesi dell’entroterra genovese, almeno fino ai primissimi anni del Secondo Dopoguerra, in occasione delle feste di Natale si preparavano i bambocci di pasta di pane, talvolta rifiniti con piccoli fagioli a simulare i bottoni del vestito. D’altronde, si tratta di una tradizione piuttosto diffusa anche in altre zone d’Italia, vedi cuneese, dove per Capodanno si fa il ciciu d’Capdan, o l’alessandrino dove si preparano il bragton. Qualcosa di simile si riscontra anche nel ravennate, dove la tradizione prevede si preparino proprio le bamboline e i galletti da regalare alle bambine e ai bambini, solo che l’occasione è data dalla festa di Santa Caterina, il 25 novembre, un mese esatto prima del Natale.
Airole è stato per secoli un borgo agricolo. Il territorio che circonda e incornicia l’agglomerato principale, a tratti perfino aspro, conferisce al paese la sua caratteristica e struggente bellezza.
Percorrendo le strade che tagliano i versanti, si capisce che l’ulivo è forse la coltivazione primaria di quest’area, ciò che riporta a una tradizione secolare testimoniata anche dal piccolo Museo dell’Olio allestito nel centro storico del paese all’interno di un antico frantoio. Fra i prodotti simbolo di un passato relativamente recente, rimane la lavanda, che quasi tutte le famiglie contadine coltivavano per destinarla soprattutto alla trasformazione dell’industria profumiera francese.
Con l’affermarsi dell’essenza “sintetica”, la lavanda fu via via abbandonata, anche se oggi c’è chi ne ha ripreso la coltivazione che in questo territorio trova condizioni ambientali ideali. Allo stesso modo, in passato era assai diffusa la viticoltura, e rivolgendo lo sguardo alla montagna, dalla piazza del paese, si scorge un vigneto esemplare quanto sbalorditivo. I numeri parlano chiaro: 80.000 metri quadri di muretti a secco (25 km di lunghezza totale!) ripristinati solo con pietra locale per ospitare circa 25.000 piante di “Roccese”.
Un lavoro ciclopico, realizzato grazie alla caparbietà di un imprenditore visionario. La Trincea è il nome di questa azienda agricola davvero estrema, nata su tre concetti forti: il recupero ambientale coerente, la ripresa di un prodotto tradizionale come il vino “Roccese” e la sostenibilità ambientale, peraltro testimoniata dalla tranquilla convivenza con un piccolo allevamento della famosa e rara ape nera, una popolazione locale di insetti capaci di adattarsi a un territorio estremo restituendone l’essenza sotto forma di miele.
Sergio Rossi