Il Pranzo di Natale in Liguria

Ogni cultura ha i propri riti, alcune sanno tutelarli meglio d’altre. Oggi a Natale taluni – specialmente i bambini – invocano la neve dietro i vetri, una famiglia allestisce l’abete, uso nordico, e la dirimpettaia il presepe (“greppia”, mangiatoia presso un recinto), ma in realtà – unendo paganesimo e Cristianesimo – il solstizio d’inverno celebra il sole che vincerà l’inverno, e con luce e calore ridesterà via via la natura ed i campi. 

A Natale, anche ogni tavola ha i propri riti. In Liguria amici lettori potreste incontrare le bugatéte (bamboline) d’area intemelia, il gran pistau di Pigna-Buggio, la zeraria del Savonese, le viette della Val Bormida, la torta (dolce) col crescente della Valle Scrivia, la spungata di Sarzana, qui e là i torroni morbidi… Ogni tradizione racconta una storia, perché le comunità discendono da quel che coltivano, producono, commerciano, apprendono, esportano…

A Genova e dintorni, anche grazie alle merci top di gamma che approdavano a Caricamento, le famiglie rese abbienti dall’abilità professionale consolidarono il menu in modo da non farsi mancar nulla, più per il lungo convivio del 25 che per la cena del 24, durante la quale si tenevano leggere, con zuppe di magro, anche per presenziare la Messa o salire alla Madonna della Guardia. Traiamo alcune significative notizie ad esempio da “O töndö de Natale” di Nicolò Bacigalupo (1837-1904), poeta e drammaturgo genovese, e da un testo dei Ferrando del 1868, ma in linea generale – purtroppo – poco sappiamo circa i vini, che potevano esser soprattutto rossi del vicino Piemonte e “moscatelli” della riviera.

La mattina del 25, allorché diveniva utopistico trattenere i bambini dal precipitarsi sui regali, era destinata agli ultimi preparativi (le “brigate” di casa componendo staff di nonne e zie che nulla invidierebbero alle attuali rosticcerie). A tarda ora, di fatto verso il primo pomeriggio, raggiungevano la sala “bella” da pranzo, rischiarata coi natelli e i lumin di mandarino, le galantine coi pinoli prima scelta, le verdure in addobbo (ovvero sott’olio) e in giardiniera (ovvero sott’aceto) e, quando iniziò ad affermarsi, anche il salame di Sant’Olcese, beninteso affettato un po’ spesso. 

I ravioli col töccö (il pezzo “reale” lungamente cotto) non di rado cedevano il posto ai mostaccioli in ricco brodo (maccheröin de Natale, detti anche natalini), pasta d’antico formato che a Savona sposava golosamente le trippe, pranzo dell’indomani.

I brodi si preparavano con cappone o, più economicamente, con maschetta di maiale, qualche polpettina galleggiante alludeva alla prosperità economica. Nel primo caso, il cappone ovviamente trionfava (lessato) tra i secondi, con mostarde. Peraltro, la parola rinvierebbe anche al cosiddetto cappon magro, che paradossalmente poteva costituire un ripiego (biscotto condito e pesci poveri), e che incontrava la salsa verde, con note pungenti che ricordano il Piemonte.

Il quinto quarto era anche nei berôdi, i sanguinacci, regalo dei macellai ai clienti fedeli, il lemma è uno di quelli che in Liguria originano dal latino, biroldus sta infatti per salsicciotto. Alcune famiglie prediligevano viceversa il tacchino (bibin), arrosto con patate o specificamente alla storiona, che ama la gelatina ma non prevede patate di contorno, e nulla spartisce col pesce storione, fors’invece legandosi ad una ricetta “stiriana”. Il tacchino, le cui dimensioni permisero sempre farciture e lardellature kitsch, è – mi si consenta l’espressione – un piatto del ringraziamento, ovvero di riconoscenza verso ciò che si possiede. Questa ricetta in effetti è – come il cappon magro – monumentale, con tocchi barocchi, inconsueti per la frugalità mediterranea… 

Le consistenze e i sapori del fritto giungevano sotto forma di croccanti stecchi nelle ostie (le “neige” o “nevole”, trasparenti cialdine d’acqua e farina reperibili dai droghieri), di “benefica” scorzonera (importantissima, del resto, anche nel cappon magro) e di latte dolce, la prelibatezza cui spettava di avviare la fase dei dolci.

Il pandolce fu – si badi bene – sino a metà ‘800 quello alto, lievitato in casa con pasta madre, che poi cedette tuttavia ampi spazi a quello basso, sorta di pastafrolla più “veloce”, lievitata coi baking di Liebig (una delle tante novità nella “Superba” di quel tempo). Trionfo di frutta candita* e secca (talora anche fichi), vi veniva conficcato dal più giovane di casa un rametto d’alloro (ofeuggiö da laurifolium), così come il rituale del porzionamento atteneva al pater familias. Del pandolce poi si riponevano due fette, una destinata al primo che picchiasse all’uscio, la seconda – ben protetta – al dì di San Biagio, 3 febbraio, quel martire è infatti protettore – non solo in Liguria – della gola e del naso. 

Da metà ‘800 si affermò anche la Sacripantina, brevetto di metà ‘800 made in Preti (che teneva bottega nella centralissima piazza Portello), e il cioccolato spaccato a blocchettoni. Per sgravare un poco la digestione, il finale poteva prevedere frutta fresche, fra cui le pere martine allo sciroppo, pasticceria mignon tipo anicini, qualche zuccherino, e un bicchierino di particolari vini, “rinforzati” (ovvero passiti)… 

Amici lettori stenterete a credermi ma il sorbetto presentava le sembianze di un’alzatina di stracchino molle molle, dopo il quale una brocca col beccuccio, nota come pirrön, consentiva il giro di grappe o altri superalcolici (bevendo “alla catalana” come la gente di mare), propedeutico – come oggi – alle tombole di società, sempre che la digestione non obbligasse ad un sonnellino. Beh, a questo punto, ovunque siate e comunque lo festeggiate, vi giunga con affetto il mio miglior Buon Natale, per un 2020 ricco di salute e serenità!

* attenzione a quei birichini che tingono la zucca per camuffarla da cedro…

Umberto Curti

Le foto dell’articolo sono di Enrica Monzani – www.asmallkitcheningenoa.com

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