Questa è la storia, semiseria, di una serata all’insegna del gusto “contaminato” tra due cucine, quella ligure-gourmet di Giuse Ricchebuono, chef stellato al Vescovado di Noli, e quella, un po’ da cow boy e un po’ minimale del Nord Europa di Nick Curtin, giovane chef statunitense trasferitosi per amore (a proposito, da poche settimane è diventato papà) in Danimarca dove, a Copenaghen, ha ottenuto quest’anno la sua prima stella Michelin al ristorante Alouette, il suo regno.
Che Nick non abbia perso il suo approccio yankee, sorriso aperto con una timidezza a stento nascosta, lo si capisce subito dopo la riunione con Giuse e tutto lo staff del Vescovado, quando chef e collaboratori entrano in cucina. Nel salone d’ingresso, ovattato come tutti saloni del palazzo che fu residenza dei vescovi di Noli e Savona, si sentono uscire dalla cucina rumori di pentole e teglie sbattute come nemmeno in una sciammada dell’angiporto…Stanno litigando? No, semplicemente Nick coinvolge tutti (compreso il sempre compassato Giuse) in un rito tribale, propiziatorio, una sorta di “haka” rugbistica. Si lavora. L’apertura è affidata a Giuse, i suoi collaudati “Giochi di cibo”, bocconcini di gusto che vogliono essere ciò che non sono (da una pralina che sembra un cioccolatino, ad esempio, si scatena una bagna cauda, per dire), si prosegue con i piatti di Nick che, non dimentica l’origine da cow boy e griglia tutto prima di stupire con i sapori nel piatto: i gamberoni con la testa svuotata e riempita di alchechengi, un frutto, e peperoncino (non piccante) habanada, in un gioco di consistenze e contrasti, i calamari con una salsina di porri e limoni, un pollo (morbido come una caramella mou) con carciofi grigliati e salsa di foglia di noce. Giuse risponde con cappellacci di calamaro conditi con ciuppin, Nick replica abbinando un’ostrica, un uovo e un infuso di ribes, sapido, avvolgente, sorprendente, così come sorprendente sono le fettina di mela antica posata sulla giuncata fresca e condita con una salsina che sa di mare, ma ricorda il bosco. A tavola, sornione, Gualtiero Spotti, l’artefice degli incontri tra chef lontani nello spazio, uniti nella ricerca spasmodica della materia prima, e Benedetta Bassanelli, bravissima fotografa che ha seguito la due giorni tra stellati. Ottimi, ma era scontato, l’abbinamento con i vini proposti dal Pier Ravera, a me è piaciuto soprattutto il Timorasso, un “rosso travestito di bianco”, come giustamente esaltava Pier. Chiusura con un dolce di agrumi. Cena riuscita, non c’è che dire, non solo per i commensali, ma anche per i due chef: “Le contaminazioni servono a crescere, ad imparare nuove tecniche e nuovi gusti, soprattutto a dare nuovi stimoli e conoscere nuovi prodotti per farli poi conoscere in luoghi differenti”, dicono all’unisono, “benedetti” dal “grande vecchio” dell’accoglienza, Matteo Ravera che del Vescovado, assieme a Giuse, è l’anima. La buona notizia è che le “contaminazioni” continueranno in primavera…