di Alessandro Giacobbe
Lo si chiami Brùsso in Liguria, Bruss in Piemonte o Bruzzo in italiano, è sempre una ricotta fermentata che rimanda ai tempi primordiali della domesticazione degli ovicaprini in area alpina a ridosso del Mediterraneo. Tanto che anche in Corsica esiste un latticino simile, il Brocciu. Per conoscere i percorsi di questo prodotto è bene recarsi ancora oggi lungo i percorsi della transumanza, che sono millenari e legano la costa ligure agli alpeggi. Un rito che avviene ancora, sia pure in modo limitato rispetto ad un tempo, quando coinvolgeva migliaia e migliaia di capi, ancora quasi cinquantamila a ridosso della seconda guerra mondiale. Il Brùsso è uno dei simboli del mondo pastorale ligure/piemontese. Ricotta fermentata, dunque: il latte è rigorosamente di pecora, o, secondo tradizione accertata in aree dell’Alta Valle Arroscia, Liguria occidentale profonda, di capra. Il coagulo del siero di latte, caldo, viene raccolto, sgronda e si innesta la fermentazione. Alcolici, olio di oliva, aceto…varie tecniche sono utili ad innescare un’azione chimica naturale che rende una pasta sempre più pungente nel tempo, vivente di vita propria. E di qui c’è l’affinamento, dalla botticella di larice a quella di ciliegio se ci si attiene alla tradizione. Ovviamente tradizione casalinga storica, diversa dalle misure igieniche oggi rispettate dai casari. Il Brùsso, pastoso, con il suo colore che non è più quel bianco “che più bianco non si può” del latticino, con il suo essere spigoloso, è un protagonista della “cucina bianca”, appunto, propria delle alte valli della Liguria occidentale. L’Alta Valle Arroscia è a capo di queste valli, ponendosi perpendicolare alla linea di costa e collegamento ideale tra dimensione marittima e realtà di montagna. Alcuni centri sono capitali per questo entroterra: Mendatica, in primo luogo, patria riconosciuta del recupero di questa dimensione inattesa della cucina ligure. E poi ancora Cosio d’Arroscia, Montegrosso Pian Latte, Rezzo, Pornassio e la miriade di centri in cui l’attività pastorale era cosa che ha coinvolto le generazioni. La stessa dimensione si potrebbe incontrare, però, a Triora o a Pigna, rispettivamente in valle Argentina e in valle Nervia. Il Brùssu è il compagno di viaggio dei pastori, è sostegno, è merce di scambio. Un pastore di Pigna, Mario Allavena detto Mariu General (1913-1987), racconta che la sua provvista di cibo per la transumanza erano sette pani (tipo il Pane di Triora per intenderci), di cui uno tagliato a metà senza mollica. All’interno, solo Brùssu. Il pane veniva chiuso da quattro chiodi in legno. Sette giorni, un pane: ogni giorno si mangiava un pane con il Brùssu spalmato sopra, preso nella “dispensa mobile” [1]. La memoria corre sempre alla transumanza, ai giorni di partenza, quando c’era la benedizione del parroco a uomini e pecore. Pecore brigasche, con il loro muso alpino, la taglia bassa, le gambe forti e la resa in latte, ahimè, bassa. Mendatica, a fine settembre, rinnova ancora la festa della transumanza, che vede le greggi calare dai monti e passare compatte fra le pietre della strada principale, sfilando a fianco della parrocchiale dei Santi Nazario Celso. Il rivolo bianco si è assottigliato, ma non si è perduto.
Il Brùssu è un elemento ricorrente nel ricettario ligure di montagna. L’apoteosi è forse nei Sugeli con Brùssu, dove la pasta fresca di sola acqua e farina, schiacciata con il pollice (sono detti anche “còrpi de dìu, è condita proprio con un sugo di Brùssu fuso, acuto e coinvolgente. Oppure si può citare la Brussusa: il risparmio prima di tutto…l’impasto del pane che non diventa pane, per non sprecare nulla, diventa una torta schiacciata ripiena di aglio e Brùssu. Il Brùssu è sapore antico che oggi può risultare ostico ad un palato appiattito, ma che piaceva molto ai nostri antenati. Ricordo ancora i “salti di gioia” (beh, i salti che si possono fare a più di 70 anni) della prozia di chi scrive quando le portavo un involto di Brùssu magari comperato in una bottega di Pieve di Teco. In fondo facevo in automobile lo stesso percorso secolare che mi ha fatto ritrovare ben un rubbo, circa sette chili di “bruzo per uso della famiglia” nella cantina del conte Ruggero Ventimiglia nel 1684 [2]. Ventimiglia di Aurigo, in valle del Maro, terra di olivi e di pecore transumanti. Ricorrenze.
[1] C.ELUèRE – R.TRUTALLI, Dal Museo all’aleggio: la pastorizia a Pigna e Buggio, in “Intemelion”, 6, 2000, p.151.
[2] A.GIACOBBE, La residenza del Conte Ruggero Ventimiglia di Aurigo alla fine del XVII secolo in un inventario “post mortem”” in “Intemelion”, 6, 2000, pp.77-100.ed in particolare p.95.