Dici Buridda e, in Liguria, pensi allo stoccafisso o, al più, alle seppie. Ma in effetti non è così o, meglio, non solo così.
Buridda, infatti, deriva probabilmente dall’arabo, che influenza anche il provenzale bourride, e significa spezzatino bollito. Quindi, in pratica, il pesce in buridda non è null’altro che una cottura, in questo caso di pesce, a tocchetti. È uno dei simboli della Liguria e, se andiamo a ben vedere, possiamo anche capire il perché. Quella tradizionale, infatti, era un misto di pesce tagliato a piccoli pezzi (grongo, palombo, e quel che dava il mare), cucinato in umido con olio di oliva, pinoli, funghi, capperi, prezzemolo e/o altri aromi. È evidente che si tratta di pesci poveri (venivano usati anche gli scorfani, siappure avvolti in garze per non farli disperdere spine e squame). La buridda, insomma, serviva per una cucina dove non si butta via nulla, povera, saporita. Ligure. Ricette più recenti, invece, propongono anche l’uso di triglie, seppie e moscardini, coda di rospo, oltre all’uso di cipolle, pomodori e vino bianco al posto o in aggiunta agli ingredienti vegetali classici. La ricchezza, insomma, contamina anche la nostra regione. Il nome buridda è simile sia a quello che designa una zuppa di pesce provenzale (bourride, come detto), sia una preparazione sarda per condire i pesci lessati come palombo e gattuccio (detta burrida), ma il tipo di preparazione è differente.
Oggi la buridda, in Liguria, si cucina (quasi) solo con lo stoccafisso, con le seppie, con piselli, patate e pomodori oppure con seppie e carciofi e pomodori. L’uso dei piselli o dei carciofi in passato dipendeva anche dalla diversa disponibilità delle verdure durante i periodi dell’anno. Nel savonese gli antichi ricettari prevedono la sostituzione di funghi, cipolle e carote con bietole, olive ed acciughe, differenziando quindi la buridda di stoccafisso savonese da quella genovese. In alcune versioni della ricetta viene aggiunta una piccola quantità di acciughe da far soffriggere insieme agli aromi.
E veniamo al vero protagonista della “buridda ligure”: lo stoccafisso!
Nel Mediterraneo lo stoccafisso arriva assieme ai vichinghi, attorno al 1000. Il merluzzo, pescato ed essiccato nelle isole norvegesi, Lofoten soprattutto, diventa uno dei beni di esportazione. Bergen, diventò la capitale della Norvegia e delle sue attività commerciali. Ancora oggi, tra i vecchi intenditori di stocche, quelle di Bergen (il “ragno”) indicano il miglior stoccafisso. E’ la resa in cucina che fa di questo stoccafisso il più pregiato e preferito dai liguri. I primi italiani a conoscere il paese del merluzzo, però, non furono i genovesi, ma i veneziani. Alla metà del ‘400 il capitano veneziano Pietro Querini, infatti, fece naufragio attorno alle isole Lofoten e per alcuni mesi lui e il suo equipaggio furono fermati dal maltempo in quelle lande. Parliamo del 1432, isola di Rost, ma al ritorno Querini fece un dettagliato rapporto per la Serenissima, un rapporto dove descrive anche la prima ricetta: “li battono col roverso della mannara che li fa diventare sfilati come nervi, poi compongono con butirro et spetie per dargli sapore”. Non solo i veneziani, però, capiscono l’importanza dello stoccafisso, i genovesi, acerrimi rivali, comprendono l’importanza di questo cibo e, addirittura, si parla di Colombo…Siamo nel 1476, il giovane Colombo si imbarca a Noli, su una flottiglia di navi mercantili diretti in Fiandra. Ha 27 anni, aiutava il padre nel commercio delle lane. Aveva, quella flottiglia, altri commerci. Colombo era imbarcato su una nave chiamata Bechella e batteva bandiera fiamminga. Fu affondata dai pirati, ma il nostro eroe si salvò raggiungendo a nuoto la costa portoghese. Lo storico spagnolo Cuneo Vidal, nel 1927, scrive che Colombo, qualunque cosa fosse andato a vendere nelle Fiandre, aveva il compito di acquistare anche partite di stoccafisso da importare in Italia. Già a quel tempo, quindi, il merluzzo nordico cominciava ad essere diffuso e Genova cominciava ad essere una delle città marinare più attive nel commercio di questo pesce, diventato simbolo della cucina ligure. Sbarcavano, i mercanti di stoccafisso, nei porti di Porto Maurizio e Oneglia soprattutto, e Pieve di Teco e Badalucco erano gli hub più importanti per trasportare e per esportare lo stoccafisso nella Padania. A Badalucco, lo stoccafisso fece superare agli abitanti un assedio da parte dei saraceni. Chiudendo le porte, e avendo una grande disponibilità di stocco, riuscirono a sfamarsi per settimane. Oggi lo stoccafisso, la buridda, il branda, sono simboli della cucina ligure, capaci di reggere non solo i grandi bianchi come il pigato, ma anche i rossi come il rossese o l’ormeasco. Non è più il piatto di magro del venerdì, troppo lunga la preparazione, ma il piatto della festa, della tradizione, di un passato diventato storia.
DUE PICCOLE CURIOSITA’
- – Non dimenticate di acquistare “Pesto e Buridda”, il famoso libro di ricette di Ferrer Manuelli, l’Oste di prua, edito da Marco Sabatelli Editore.
- – Non posso non ricordare Thor Heyerdahl, antropologo, esploratore, ambientalista norvegese che dopo ogni impresa tornava a Colla Micheri, tra Andora e Laigueglia, e come “ambasciatore dello stoccafisso” raccontava il merluzzo e la sua terra nelle feste organizzate dall’allora Comunità Montana ad Andora, con gli indimenticabili Silvio Torre e Romano Strizioli a fare da anfitrioni…
(Stefano Pezzini)
LA ROTTA DELLO STOCCAFISSO “RAGNO”
La famosa qualità “ragno” deriva in realtà da storpiatura dell’esportatore norvegese Ragnar, marchio che garantiva selezioni delle pezzature migliori (“baffa” indica il mezzo pesce, diliscato). Sceso dalle rastrelliere, il pesce già in patria è vagliato da occhi e nasi dei Vrakeren, i classificatori, che ispezionano forma, pulizia, assenza di muffe ed ecchimosi… Le tabelle commerciali distinguono poi i tipi di 1a scelta (Westre magro e Demi Magro, Grand Premier, Lub, Bremer, Hollender, Westre Courant, Westre Ancona, Westre Piccolo), caso per caso prescelti perché più o meno magri, polposi, sodi, brillanti… L’imballaggio in arrivo a Genova prevedeva di solito sacche di juta da 50 kg, munite di “orecchi” per muoverle più facilmente. (Umberto Curti)
LA BURIDDA DI LIGURIA FOOD
Per la nostra casa editrice la Buridda è veramente un mito. Il libro più venduto tra gli oltre 300 del nostro catalogo è “Pesto e Buridda” del mitico Ferrer (l’Oste di Prua) e abbiamo perso il conto delle ristampe realizzate. Avevo 9 anni nel 1974 quando è uscita la prima edizione e ricordo vagamente che in quel periodo frequentavano la nostra tipografia nel centro storico di Savona personaggi come Dario G. Martini, Luigi Veronelli e Enzo Tortora che avevano firmato la presentazione del libro e naturalmente Ferrer. E la sera che mio padre tornò eccitato per aver conosciuto Monica Vitti e Michelangelo Antonioni nel locale dell’Oste di Prua a Spotorno. Proprio mio padre forse mi ha passato la passione per la cucina. Non cucinava moltissimo anche perchè quando lo faceva lasciava la cucina in stati tali che la lite susseguente con mia madre gli consigliava di far passare un po’ di tempo. Ma uno dei suoi piatti preferiti era la Buridda. Ogni famiglia ha la sua ricetta e nella nostra, forse per venire incontro ai gusti di noi bambini, lo stoccafisso spesso era sostituito dalle seppie e le patate dai piselli. Scusate questo piccolo angolo di ricordi ma anche per fare capire ai nostri lettori quanto abbiamo curato la stesura dell’articolo.
Così anche questa volta abbiamo chiesto a Giuse Ricchebuono, chef stellato al Vescovado di Noli, se aveva voglia di illustrarci tutti i passaggi. Non è la prima volta che ci accoglie nella sua cucina ma vederlo all’opera è sempre un’esperienza: potete vedere il video nella pagina della ricetta della Buridda. La sua versione non si discosta molto da quella che Ferrer ha pubblicato nel suo libro e vi mostriamo tutti i passaggi e gli ingredienti. Alla fine non potevamo esimerci da procedere all’assaggio. E così con Giuse, il fotografo Gino Tumbarello e il nostro Art Director Massimo Bressan, seduti nella cantina del Vescovado, abbiamo pranzato e dalla conviviale chiacchierata abbiamo preso spunti per futuri articoli della rivista. Inutile dire che della Buridda non è avanzato nulla e nessuno ha avuto remore a procedere alla “scarpetta” con il fantastico pane del ristorante. Il sommelier Pier Ravera, ci ha consigliato l’abbinamento con un Rossese di Dolceacqua della Cantina Foresti che anche il nostro sommelier De Moro ha condiviso in pieno suggerendo anche un Ormeasco Sciacc-tra, quindi rosato, della Tenuta Maffone. (Dario Sabatelli)
Qui il link alla pagina della ricetta: https://www.liguriafood.it/2022/05/01/la-buridda/