Castagna… più che un frutto un catalogo di mediterraneità: sull’Appennino 20 chili valevano da paga per un giorno di lavoro. Si macinavano ritualmente a luna vecchia (per evitar farfalle).
La Liguria del presente annovera diverse varietà, ricco areale là dove l’esposizione a nord renda più umidi i boschi: gabbiana/garessina* in Val Bormida, rossetta nell’area di Vendone (non casuali dunque le lazarene), e a levante la gentile, la chiavarina, la carpenese (da provare sciroppata con alcol), la bunneive, la bodrasca** … Nel Savonese, dove Calizzano e Murialdo vantano le castagne essiccate nei tecci (seccherecci), diriccera è detta la peculiare pinza per cogliere ricci senza pungersi.
Castagni, come non tributare affetto a quegli “alberi del pane” cari anche a romanzieri, poeti, pittori?… Ma ne tributiamo anche (more solito) ai monaci, benedettini e camaldolesi, che ne ottimizzarono la coltura, del resto parliamo di “agronomi” grazie a cui molte piante scamparono ai secoli più difficili.
Purtroppo, pochi anni fa, un patogeno dalla Cina (cinipide galligeno) andava compromettendo i raccolti, si è efficacemente fronteggiata la strage con un altro imenottero antagonista (Torymus sinensis) che lo preda, ma la ruralità ligure – nazionale – dovrà continuamente vigilare contro le introduzioni – volontarie o accidentali – di insetti e specie alloctone, che insidiano le nostre.
Precisava fra ‘700 ed ‘800 il botanico finalese Giorgio Gallesio (1772-1839) che “la Gabbiana è la varietà dei luoghi freddi. …Io comincerò a dare qui un’idea di quelle (castagne) che si distinguono nell’Appennino Ligustico (…) Io le riduco a due, perché non ne trovo che due che rappresentino delle qualità tali da meritare di essere distinte, e sono la Gabbiana e la Ciria. …Io non ne ho mai trovate delle ugualmente gentili in alcun paese. Da per tutto ho trovato i Marroni e li ho trovati figurare come la prima tra le castagne, cosa che non succede dove si conoscono le Gabbiane e le Cirie”. L’export di conseguenza era addirittura internazionale, lungo la costa sud della Francia sin poi alla Catalogna… Ma all’amico Lettore di “Liguria Food” presumo interessi soprattutto che la polpa di tali varietà locali si è serbata nel tempo morbida di consistenza, e delicata di sapore.
Ben prima di Gallesio, i castagneti furono una costante nell’entroterra ligure fin dall’Alto Medioevo, anche oltre i 1.000 m, grazie a terreno (potassio…) e clima. In età napoleonica si quantificarono ben 200.000 ettari. Valbrevenna e Ne, retrostanti Genova e Tigullio, ad esempio, sfoggiano tuttora esemplari bellissimi, longevi, resistenti, e dove un tempo regnavano le fate oggi giocano bambini o camminano cercatori di funghi pregiati.
I castagni inoltre furono più che salvifici durante la peste bubbonica “di Boccaccio” infuriata in Toscana (1348…), la quale anche in parte della Liguria costrinse la popolazione verso le colline.
Del castagno, come si suol dire del maiale, non si sciupa niente, tanto che in Valle Stura “erburu” (albero) indica per antonomasia il castagno (altrove il fenomeno semantico avviene con l’olivo). Le scàndole sono tegole in castagno, ed il legno inoltre, fortemente tannico, agevola – quand’occorra – i processi di acetificazione.
La raccolta delle castagne, per cui talora – ove scarseggiasse manodopera – intervenivano “castagnere” dai paesi vicini, dopo accurati sfalci d’erba avveniva in fretta, così che i frutti cascati non s’ammalorassero. Tutto ciò concludeva il tempo del lavoro rurale, e l’essiccazione – antica tecnica protettiva – avviava il ciclo delle veglie attorno al focolare, durante le rigide sere invernali (da metà ottobre a marzo). Si recitavano preghiere, via via attraverso i secoli si giocò a tombola e dama, si tessevano cose per la casa o da indossare, si aggiustavano attrezzi. Le castagne peggiori di solito finivano a maiali e galline, le migliori in tavola… Ma senza eccedere (diamine!), dato che “chi per vila o per montagne usa tropo le castagne, con vim brusco e con vineta sona speso la trombeta”, allertava il detto popolare (colpa di zuccheri non demoliti dagli enzimi). Come detto ci si serviva beninteso anche del legno, per la copertura di tetti, per le staccionate che dividono le proprietà o accompagnano i sentieri, per fabbricare porte, mobili, vanghe… E col tannino si conciavano pelli. Microeconomie, presidio dei luoghi…, sulla Val Graveglia scrisse pagine da par suo Hugo Plomteux.
I tecci della val Bormida, prima citati, sono piccole costruzioni di pietra, coperte da scandole, molte famiglie ne possedevano una (oggi purtroppo ne sopravvive forse un decimo). Una graia rialzata a 2-3 m dal suolo consentiva/consente a calore e fumo di salire alle castagne, che vi venivano trasportate in sacchi dalle bestie da soma. La varietà, in genere gabbiana, affumica due mesi sopra un fuoco tenue e continuo. Dopo di che se ne fanno confetture, biscotti, gelati… Analoghi ai tecci i canissi in Valle Arroscia, sovente celati dal bosco tanto da poter divenire “ritrovi” dove sbocciavano amori; dopo l’essiccazione, le castagne da sbucciare venivano poste dentro una pistagna (sacca di tela), immersa in acqua e ceneri calde, sbattuta tre volte su un ceppo, le castagne finivano poi nel vallo (cesta tonda e piatta) dove si distaccava la pula, e infine si festeggiava il buon esito del lavoro con buridde di stoccafisso o altra leccornia.
Castagne e marroni sono parenti ma non la stessa cosa (v’è financo un decreto regio del 1939): in sintesi le castagne provengono da pianta selvatica, contengono più frutti per riccio, hanno buccia bruna, e il seme è avvolto da uno spesso tegumento; i marroni provengono da pianta domesticata, contengono meno frutti per riccio, più grossi e tondeggianti, e la buccia mogano è più pallida e sottile, facile a rimuoversi.
Hanno nel complesso un elevato potere nutritivo, tanto da elevarsi talora a “pane dei poveri”*** , e si possono consumare – come noto – secche o fresche (arrostite, bollite, cotte nel latte, glassate, di contorno a carne bianca e selvaggina, a lessi, a formaggi…). Interessanti anche alcune proprietà tonificanti/remineralizzanti e cosmetiche.
Quanto alle ricette salate, il Genovesato propone le cosiddette “castagne grasse” (cuighe, castagne e côi…), una corroborante zuppa tra valli Scrivia e Polcevera (GE), ovvero castagne fresche con cotenne, cavoli ecc., essa non poteva mancare il 17 gennaio per Sant’Antonio, protettore dei salumai, dei macellai… Quel giorno infatti si benedicono gli animali e le particolari “gallette” da appendersi nei cortili, nelle stalle, nei pollai. Con le castagne grasse dico sì a fettuccine fresche di pasta integrale, ma no al parmigiano, che a mio parere snatura le origini del piatto.
La farina di castagna è poi base, o degno partner, di invitanti rusticità come picagge e trofiette matte, pan martin (per l’11 novembre…), castagnacci, colombe pasquali, canestrelli (a quello de.co. di Montoggio ho anni fa personalmente contribuito) e altri dolci da forno. Giobatta Ratto stesso (1863) impiega sovente le castagne nella propria Cuciniera Genovese.
Il castagnaccio, castagnun a Ventimiglia, Ceriana, Taggia…, si chiama tendenzialmente “pattunn-a” in Val Fontanabuona, Sturla, Magra, Trebbia (a Montebruno ungono la teglia con cotenna suina)…, e panella/panellina a Castiglione Chiavarese (Val Petronio), Val di Vara… Un tempo il prete, esecrando gli sprechi, chiedeva “Metterete ancora la pattunn-a nei buchi?”, e la folla dei fedeli di rimando “Noi no!”.
E’ peraltro un dolce molto apprezzato anche in Toscana (documenti v’ubicano pattone sin dal 1449) ed in Emilia. In Liguria (dove, come le ballotte/balletti, si poteva anzitutto consumare il 2 novembre per i morti) non domina una ricetta unica, intendo dire ch’essa talora si mantiene più essenziale, o più bassa, talaltra s’arricchisce con ricotta (Levanto), tomini di capra (ove salata), con pinoli, uvetta, noci, rosmarino**** , financo scorze d’arancia candite, a scapito del miele.
Del resto in Emilia, già nel 1644, il medico bolognese Vincenzo Tanara proponeva varianti innumeri e sbalorditive, e a Siena questo dolce s’ergeva ad autentico “sfamafamiglie”…
In linea generale, tale impasto di farina di castagne, acqua e olio extravergine, zucchero secondo gusti e una presina di sale, spessore max 2 cm, va in forno almeno 35-40 minuti a 180°C, e l’abbinamento enologico – beninteso per la versione dolce – chiede ad es. una coppa di DOC Golfo del Tigullio-Portofino Moscato, oppure un tulipanino di passito a bacca bianca, ma non troppo “caldo” né “invecchiato”.
* circa la garessina, esiste un Codex comunale del 1343
** l’elenco potrebbe proseguire con (caso per caso molte voci riflettono il parlato locale) la borinasca, la buiasca, la bulaia, la ciapenn-a, la ghiacciola, la maglione, la naunn-a, la negrisciola, la negrona, la otagin, la petacca, la peviasca, la pezzua, la purté, la puseasca, la quarantina, la russain, la sarvega de Giaio, la spessuga, la spinosa, la suinn-a, la tempuia, la tosetta, la turigino, la verdönn-a, la verduccio…
*** non a caso si vendevano – merenda come scorta di calorie – dinanzi a fabbriche, scuole…
**** il rosmarino valeva da filtro d’amore, col castagnaccio le giovani si facevano chiedere in spose…
Umberto Curti