La Liguria è una regione che vanta lembi di territorio unici, sospesi tra le montagne e il mare, ricchi di fascino: tra questi, i comuni di Vernazza, Manarola, Riomaggiore, Monterosso e Corniglia, noti come le Cinque Terre, rappresentano un territorio impareggiabile e inconfondibile. Borghi stipati su speroni di roccia a picco sul mare, su terreni verticali dipinti da colori unici nelle tinte pastello rosa, giallo, bianco, rosso e azzurro.
Destinazione turistica ideale per una vacanza lontana da stress, rumore e caos, circondata da una catena montuosa che precipita in mare tra insenature, promontori e ripidi pendii. Località risparmiate dalla speculazione edilizia: Monterosso, dalle strette vie che si inerpicano tra eleganti ville; Vernazza, abbarbicato su uno sperone roccioso con il suggestivo porticciolo; Manarola, un affresco di case ognuna con il proprio colore per essere riconosciuta in lontananza; Riomaggiore un quartiere di pescatori dagli stretti carrugi e colori pastello affacciato sul mare, e uno di agricoltori, aggrappato alla collina; Corniglia, arroccato su un promontorio e collegato ad un’insenatura da una interminabile scalinata. Il territorio più selvaggio della costa ligure che, grazie al lungo isolamento dovuto alla difficoltà e impraticabilità del suo ambiente, è stato dichiarato parco e patrimonio dell’umanità dall’Unesco.
Il mezzo consigliato per raggiungere le Cinque Terre è il treno che, da Levanto, collega tutte le località, fino a Riomaggiore. Molteplici sentieri pedonali (il più famoso la passeggiata dell’amore che va da Riomaggiore a Manarola) uniscono i centri abitati attraverso un litorale frastagliato, che cade a strapiombo nel mare: paesaggio arcaico dove l’uomo ha terrazzato la montagna con 7000 chilometri di muretti a secco per ricavare strisce di terra con vigneti impervi, ulivi e ortaggi all’ombra della macchia mediterranea, pini marittimi, limoni, fichi e agavi.
Qui è la natura che detta le regole: un terreno roccioso facile allo sbriciolamento e allo scivolamento nel mare, che resiste grazie al contenimento dei muretti a secco. Si dice Cinque Terre e si pensa subito al vino, perché esso rappresenta uno dei prodotti più rinomati e ricercati dai turisti e visitatori di questo territorio, prodotto da sapienti e abili mani di vinaioli eroici i quali, da secoli, addomesticano questo paesaggio: la meccanizzazione è limitata alle sole cremagliere che dal mare trasportano l’uva vendemmiata in ginocchio e sudata su migliaia di scalini. Sacrifici e fatiche immani, che hanno portato Veronelli a definire i vignaioli del luogo “angeli matti”: solo dei “matti” potrebbero coltivare la vite in queste zone, e “angeli” perché con la loro ostinazione salvaguardano e conservano un territorio unico. Il vigneron delle Cinque Terre ha doti di equilibrismo nella conduzione dei vigneti aggrappati ai monti grazie a un sistema di terrazze, spesso lasciate in pasto ai cinghiali. Ma il problema dell’abbandono è sempre più un aspetto considerevole dovuto alla faticosa coltivazione dell’uva con rese basse e costi molto alti.
La coltivazione della vite in questo territorio impervio risale ad un periodo antico: già nel III secolo a.C. questa era presente, e il vino era una delle principali risorse per alimentare i baratti, fonte di sostentamento per la popolazione locale. Nel corso dei secoli, la coltivazione della vite si è affinata, immergendosi totalmente nel territorio, sfruttando lo stretto legame che si crea tra il mare e la roccia, tra le carezze del vento ed il calore del sole.
I suoli sono poveri, caratterizzati dalla presenza di sassi e roccia; il microclima è perfetto per la coltivazione della vite: le montagne proteggono le vigne dai venti freddi provenienti da nord, la brezza marina e il sole le avvolgono e le importanti escursioni termiche tra il giorno e la notte contribuiscono a donare alle uve un’aromaticità intensa e una freschezza sostenuta, caratteristiche perfette per la produzione di un vino passito. In questo contesto nasce lo Sciacchetrà, il vino più apprezzato, ricercato e rappresentativo delle Cinque Terre, come la costa che cade dritta nel mare, con le viti coltivate sdraiate, all’altezza massima di un metro dal suolo, protette dai venti tramite muretti a secco, accumulatori di calore per una perfetta maturazione dell’uva.
Lo sciacchetrà è un vino passito con origini molto lontane: sembra che derivi da “shekar”, nome col quale, nella Palestina venivano definite le bevande fermentate. Il primo che introdusse un nome simile all’attuale, fu il pittore macchiaiolo Telemaco Signorini, il quale, nelle sue memorie “Riomaggiore”, affermò che «in settembre, dopo la vendemmia, si stendono le migliori uve al sole per ottenere lo sciaccatras». Lo stesso appellativo Sciacchetrà è un termine recente che ha scalzato il dialettale Refursà, come ancora oggi viene chiamato dagli anziani locali.
Per questo nettare si scelgono i grappoli migliori dei vitigni autoctoni della Riviera di Levante: il Bosco e l’Albarola, ai quali si aggiunge il Vermentino (vitigno bianco più diffuso nell’area del Mediterraneo), fatti appassire in fruttai per circa 50 giorni, e dopo il primo novembre vinificati. L’uva Bosco in particolare è ritenuta la migliore per ottenere un buon Sciacchetrà, dato che è robusta, resistente e con un’ottima resa, tanto che in dialetto veniva chiamata caregase¸ cioè “carica-asino” (nel senso che la produzione è talmente abbondante da affaticare un asino). L’acino perde più del 60% dell’acqua contenuta, e in questo processo si concentrano gli zuccheri e gli aromi. Si selezionano gli acini a uno a uno, segue poi una fermentazione con macerazione sulle bucce, per almeno 20 giorni. Nella buccia si trovano infatti le sostanze aromatiche che sono determinanti per la definizione del colore e per le caratteristiche tattili e gustative del vino. Segue poi una maturazione sui lieviti molto prolungata, controllando le temperature per realizzare un vino molto concentrato in profumi e struttura. Quasi tutte le cantine eseguono un illimpidimento naturale senza l’uso di filtri, per proseguire poi con l’affinamento in piccole botti per almeno 12 mesi, fino al 1º novembre dell’anno successivo alla vendemmia, mentre per la versione riserva almeno 3 anni.
Lo Sciacchetrà ha sempre avuto una produzione limitata; per questo, a differenza del vino secco delle Cinque Terre, un tempo non era commercializzato, era un tesoro prezioso da custodire per i momenti solenni, matrimoni e battesimi. Quando un bambino nasceva gli si metteva da parte una sorta di corredo in bottiglie e si stappavano quando, divenuto grande, si sposava, si laureava o per tutte le più importanti ricorrenze. Ma lo Sciacchetrà veniva anche donato per ingraziarsi persone importanti, come il medico, l’avvocato o il prete.
Le aziende delle Cinque Terre stanno strappando terreni ai boschi e alle ripide discese della costa, per impiantare sempre più vigneti: l’azienda Possa di Riomaggiore, con vigne che vanno dai trecento metri di altitudine, a quelle che lambiscono il mare, è il classico esempio di un produttore fortemente legato al proprio territorio e che, con fatica e passione produce un vino unico. L’azienda della famiglia Arrigoni che da quattro generazioni lavora con un occhio al futuro nel rispetto della propria storia di appartenenza, coltivando i propri “cian” che danno vita a 2 tipologie di vino (base e riserva). Ancora la piccola azienda familiare Vetua, a Monterosso, che, con il proprio ettaro di terreno, sceglie di produrre lo sciacchetrà solo nelle annate migliori in piccole quantità e solo Riserva.
Nel corso dei secoli molti personaggi illustri hanno esaltato lo Sciacchetrà: Plinio, Boccaccio, Petrarca, Papa Paolo III; Giosuè Carducci lo descrisse come l’essenza di tutte le ebbrezze dionisiache, il Pascoli ne richiese l’invio di alcune bottiglie “in nome della letteratura italiana”, mentre D’annunzio lo definì “vino profondamente sensuale”. La sensualità di questo vino è evidente sia nel colore che va dal giallo dorato all’ambrato, sia nella roteazione oleosa nel bicchiere, come una vestale sinuosa. Il profumo è intenso, caratteristico aroma di miele, agrumi canditi, albicocca disidratata, pesca gialla, ma anche note speziate (zafferano) e silvestri, con intense sfumature iodate e balsamiche. In bocca è dolce, armonico, di buona struttura e di buon corpo, equilibrato ed elegante, sapido e minerale, piacevole e lungo con retrogusto mandorlato; colpisce per il grande equilibrio tra componente dolce e acidità, rendendo il vino non stucchevole e assai complesso.Da giovane accompagna molto bene i formaggi piccanti stagionati ed erborinati e dolci secchi di buona consistenza, magari speziati o arricchiti con frutta secca come mandorle e nocciole oppure frutta candita, quale il pandolce genovese, i cantucci, il panforte, il panpepato. Ma dopo un lungo affinamento diventa un vino da meditazione, e chi avrà occasione di degustane una bottiglia rimarrà ammaliato tanto da andare alla ricerca della stessa emozione. Istruzioni per un perfetto abbinamento? Ognuno ha il proprio, il mio? Un libro, un camino e… lo sciacchetrà, un vino per pochi, per chi sa immergersi nel territorio di provenienza gustandone la storia fatta di sudore, coraggio determinazione e passione!
Franco Demoro