L’olivo è un albero definito “lento”. Ha i suoi tempi, la sua crescita, il suo comportamento saggio, che sa affrontare siccità, scarsità di nutrimento, avversità, venti. Non muore mai.
Oggi è vissuto come “albero della fretta”, secondo un’acuta osservazione dello studioso e agricoltore Paolo Veziano di Isolabona (IM). Albero della fretta in ragione delle modalità e dei tempi di gestione della raccolta attuale. Si raccolgono olive fatte cadere dagli alberi su reti pulite e mobili, le olive fresche si portano al frantoio in cassette areate e vengono molite in giornata. Sono buone pratiche volte ad ottenere un prodotto eccellente. A livello stagionale, il disciplinare dell’olio extravergine di oliva DOP Riviera Ligure fissa il termine della raccolta al 31 marzo, onde preservare determinati caratteri organolettici e chimici. Ai più giovani sfugge come fosse organizzata la raccolta nel passato. Un passato non così lontano come si può pensare, perché arriva agli anni Settanta del Novecento per alcuni elementi. L’agricoltura è il campo in cui l’evoluzione delle pratiche è in assoluto più lenta. La meccanizzazione ha cambiato molto, ovunque. La Liguria però ha una dimensione verticale, complessa, in cui la macchina ha poca possibilità di azione. La raccolta delle olive si giova sempre e comunque del miglior utensile a disposizione dell’uomo: le mani. Il passato si materializza in alberi molto alti, alla ricerca di produzioni importanti, ma sfidando la sorte nell’arrampicarsi per far cadere con pertiche di legno di nocciolo o castagno, leggere e flessibili, resistenti e opportunamente lavorate per essere utili allo scopo. Il lavoro è pericoloso e minuzioso. Le olive cadono a terra. Quando si raccoglie, si tendono lenzuola sotto gli alberi. Lenzuola guardate con attenzione, perché molto costose, a suo tempo. Chi scrive ha visto ancora utilizzare tele mimetiche della seconda guerra mondiale, dimenticate da un esercito tedesco in rotta. Quando, alla fine del Settecento, la quantità di prodotto inizia ad essere davvero importante, la mano d’opera sul campo deve essere cercata altrove. Nasce così il mito delle raccoglitrici, soprattutto nella Liguria occidentale. Perché è vero, si raccolgono sotto gli alberi le olive abbacchiate o quelle cadute per il vento, in tempi assai dilatati. Ci vogliono mani piccole, veloci, pagate di fatto a quantità di olive recuperate a terra. Una terra lavorata, spianata, priva di erba. “Pulita come in mano”. Le protagoniste di quella stagione sono le “Sciasceline”, le giovani che arrivano nei paesi dell’olio dalle alte valli della Liguria, dal Basso Piemonte, val Tanaro in primo luogo e perfino dall’Emilia. Inverni rigidi e improduttivi nei loro luoghi d’origine. Scelta obbligata, avventurosa e felicità per i ragazzi liguri, non senza ostilità delle ragazze del posto. Più che qualche volta, queste migrazioni diventavano stabili, suggellate dal matrimonio. La raccolta non si protrae appezzamento per appezzamento, ma anche e soprattutto albero per albero, in ragione di quantità e grado di maturazione delle olive, delle possibilità di carico del mulo o dell’asino. Insomma, al massimo due sacchi di olive. Un sacco conteneva cinque quarte. La quarta è la misura standard per le olive in Liguria. Corrisponde a 12,5 chili. Il sacco dunque conteneva 60 kg di olive circa o meno, considerando le foglie che si separavano a parte. Cosa non da poco. Insomma, si procede a uno, due, massimo cinque alberi a giornata, magari. C’era anche chi, dotato di forza e resistenza, nei giorni umidi con le olive cariche di rugiada, andava a scuotere l’albero. La “secrollata” nella Liguria occidentale era vista come una pratica sfiancante e ammirata. Le olive non raggiungevano subito il frantoio. Dopo una lunga operazione di eliminazione delle foglie con la “chitarra” o al volo, venivano generalmente ammassate a mucchi nei depositi. Si scaldavano, maturavano, quasi marcivano, diventavano muri spessi da spalare e poi da vendere, a compratori inviati dai frantoiani. Figure abili, capaci di stimare la resa di una partita di olive affondando le mani nel mucchio con una voluttà quasi peccaminosa. Non sbagliavano mai. Salvo poi fare i conti per l’acquisto, con interminabili trattative, spesso messi in difficoltà da venditori molto generosi nell’offrire bicchieri di vino nostralino. Il concetto di base era quello legato alla quantità e non alla qualità. Le olive si raccoglievano in mucchi, ove restavano vari giorni. Scaldandosi, potevano in effetti garantire una resa maggiore, a scapito però della qualità. In termini di quantità, va ricordato che la quarta è detta anche “doppio decalitro”.
Ricorre il due. Perché le olive liguri rendono mediamente 2 kg di olio per misura o quarta. La cosiddetta resa del 20%, che diminuisce o aumenta a seconda di molti fattori, legati soprattutto al clima, alla gestione degli alberi in termini di concimazione e potature, alla sensibilità dello stesso alla “fatica” di produzione. Non si dimentichi che per la Liguria si parla quasi sempre di alberi secolari.
In determinate condizioni, avanzando anche la stagione, vi sono annate in cui ci si avvicina o si oltrepassa il 30%. A scanso di equivoci, è noto che la resa in olio in ambito ligure è partita in modo chiaro: su di un quintale di olive, il 40% circa è acqua di vegetazione, un altro 40% è sansa, il restante 20% è mediamente olio. Una percentuale inferiore altrove e talvolta superiore in Liguria. Il calcolo “strutturale” è questo. Però, al di là dei calcoli, quello che si impone è un mondo sapienziale in cui contano soprattutto le mani: per raccogliere, per valutare una resa sentendo il calore delle olive, in un modo effettivamente sensuale, per far di conto tra vendite e rese. Contando cifre importanti sulla punta delle dita. Era ed è la scuola dell’olivicoltura ligure.
Alessandro Giacobbe