È visibile al pubblico una sola volta all’anno e già questo basterebbe a suscitare una certa curiosità: la chiamavano Tyrus maior – oggi meglio conosciuta come l’Isola del Tino. Si trova nel Golfo dei Poeti, insieme alla sorella maggiore l’isola Palmaria e quella minore l’isola del Tinetto, ed è un vero gioiello forgiato dalla storia e dalla natura. L’unico modo per raggiungerla, negli unici giorni in cui è permesso farlo, è via mare, con una barca propria o con i traghetti che partono dalla Passeggiata Morin della Spezia o da Portovenere. Sono minuti di pace quelli che separano il punto di partenza da quello di arrivo: il mare da azzurro-verde, quasi impenetrabile, diventa sempre più blu, riflette il sole e nel suo gioco di luce e colore è cristallino ed elettrico allo stesso tempo e a lasciarsi andare ha la capacità di spingere la mente quanto basta a premere un reset ed accogliere tutto quello che la magica Isola del Tino ha da raccontare. Si giunge quindi all’unico punto di attracco, si sale lungo l’unica via tracciata e coperta a destra e a sinistra di rigogliosa ma anche selvaggia vegetazione, tanto che alterna meravigliosi scorci sul mare ad un’impenetrabile trama di rami e foglie.
Siamo quindi pronti per l’inizio di questo viaggio-racconto, quello dell’Isola del Tino, indissolubilmente legato alla storia di Venerio (oggi santo protettore del Golfo e dei Fanalisti) monaco benedettino vissuto tra il cinquecento e il seicento d.C che scelse l’Isola come dimora della sua scelta eremitica. Quello che oggi sappiamo di lui avvolge la sua figura tra religione e leggenda. Si narra infatti di un uomo capace di placare le tempeste e domare il mare, di un uomo custode dei naviganti che ogni notte per guidarli si curava di accendere un grande fuoco sulla parte più alta dell’isola e che dava loro aiuto e ristoro.
La storia prosegue passando per l’area archeologica, aperta al pubblico per la prima volta quest’anno. Qui si ritrovano le rovine di una prima piccola chiesa costruita sulle spoglie di San Venerio e poi divenuta un più ampio complesso monastico che oggi costituisce l’intera area archeologica. Quello che accadde è che dopo la morte di Venerio alcuni monaci benedettini, intorno all’anno mille, seguirono il suo esempio e si stabilirono sull’Isola dove rimasero fino alla fine del millesettecento circa.
Si lascia l’area archeologica e si riprende la strada salendo verso la cima dell’Isola. Si arriva al faro. A questo punto del racconto e del cammino è il momento di presentare il cambiamento radicale: nella seconda metà del milleottocento a seguito di un esproprio demaniale l’Isola diviene di proprietà ed uso esclusivo della Marina Militare. A segnare questa svolta è anche l’importanza del faro del Tino. Il faro è tutt’ora funzionante, accessibile e visitabile, in questi giorni speciali. Si sale, si passa anche qui per un pezzo affascinante di storia ovvero i luoghi abitati dal guardiano del faro. Si arriva alla cima. La vista dal faro è mozzafiato. Il Tinetto da una parte, la Palmaria dall’altra. L’intero golfo lì davanti, a nutrire uno sguardo affascinato e incredulo. Poi, ad essere fortunati come me si incontra Renzo Fiorentini, l’ultimo guardiano del faro del Tino. Renzo, ha passato molti anni della sua vita qui, con sua moglie, il loro orto, le galline, la barca per pescare e/o per raggiungere la città.
Renzo ha i capelli bianchi e gli occhi blu, come il mare che lo ha circondato per tutta la sua vita e uno degli sguardi più vividi che abbia mai visto. Gli ho voluto chiedere che genere di vita fosse stata quella del guardiano del faro e lui ha risposto così: «Preferivo un pezzo di pane qui piuttosto che un bicchiere di champagne altrove». Così ho concluso questa meravigliosa gita al Tino chiedendomi: quanto ci perderemo in questo nostro presente e in questo nostro futuro di tutta quell’autenticità, di tutta la vita che queste persone riuscivano davvero a stringere tra le mani prima che bastasse un bottone di questa “tecnologia” ad accendere la luce di un faro? Quale è il vero prezzo di sostituire la velocità alla lentezza? Quanti gioielli come l’Isola del Tino riusciremo a conservare? Il viaggio del ritorno, reduci di tanta bellezza, lascia spazio a tante riflessioni e alla voglia di ritornare.
Elisa Alciati