Sardenaira! Street food che finalmente a Sanremo incontri ovunque, alto e soffice il giusto*, da assaporare macchiandoti le dita di rosso, il naso all’insù verso le bellezze del centro storico (la Pigna avvita scorci struggenti), o gli occhi verso il blu dalle marine (Area 24 sdipana orizzonti infiniti).
A Sanremo per la sardenaira è stata istituita, con relativa ricetta, la de.co., un protocollo ne “disciplina” la produzione. La de.co. è una forma di tutela e valorizzazione che a livello nazionale non sempre riscosse immediati favori, io tuttavia la lego alle intuizioni di “Gino” Veronelli, uomo mai troppo rimpianto e con cui ebbi l’onore di intrattenere un epistolario. Innamorato della Liguria (la madre proveniva da Finalborgo), Veronelli concepiva l’enogastronomia, e le fiere tradizioni locali, come convivio, là dove tuttora molti si ostinano a recintare chissà quali orti corporativi…
Lo preciso subito: dissento da chi posizionasse la sardenaira, o la piscialandrea, come “progenitrici” della pizza napoletana. Non ve n’è alcun bisogno e riuscirebbe arbitrario. Amico lettore, se hai letto qui o là qualcuna delle mie ricostruzioni storiche sai bene come molti impasti, dapprima azzimi, ascendano – come ovvio – molto indietro, forse la cosiddetta Mezzaluna fertile (così l’archeologo Breasted denominò quella culla mediorientale di civiltà bagnata da 4 immensi fiumi) e poi l’Africa di nord-ovest, via cruciale nelle diacronie del nutrirsi mediterraneo; già i Fenici, i Cartaginesi e i Greci, con farine d’orzo, segale e miglio, ne arroventavano al fuoco e su piastre. Immediato dunque il link alla “pitta”. Il gene-tliaco del Faraone, nell’antico Egitto, la vedeva primeggiare profumata con erbe, e lo storico Erodoto (484-post 430 a.C.) accenna anche a ricette babilonesi. Tali pitte (piceae, pixiae, pissae), tali schiacchiate, “piade” e simili, insaporite con quel che c’era, tornano anche in Archiloco di Paro, milite-versificatore del VII secolo a.C., come “rancio” non secondario delle truppe, ovvero – ipso facto – cibo ben noto e funzionale. La Grecia classica se ne valse infine come “mense”, ovvero deschi su cui “dressare” i cibi per imbandirli e sfamarsi, in tal modo le pitte s’intridevano dei condimenti, tanto che dal libro VII (de mensis consumptis, vv. 107-147) dell’Eneide, poema denso di passaggi “agroalimentari”, desumiamo come venissero poi esse stesse consumate. Hai del resto mai gustato il pan guttiau sardo?
E proprio sardine, acciughe, aglio (che nell’attuale sardenaira resta in camicia), cipolle, olive (nere più che verdi), odori (origano più che basilico**), forse capperi e formaggi (ovini) guarnivano molte proto-focacce, dato che il pomodoro attendeva prue verso le Americhe, e quando apparve in Europa – esotico ornamento dal Nuovo Mondo – scontò a lungo destini simili alla patata, “diabolica” e velenosa, chiedere a Padre Michele Dondero in Val Fontanabuona…
Curiosando online scopri poi che il 20 giugno 1538 la vedova di Stefano Doria, signore di Oneglia, ospitò tre fra i notabili più potenti dell’epoca, Papa Paolo III, Carlo V d’Asburgo e Andrea Doria, reduci da Nizza, dove il pontefice agì da paciere tra Carlo V e Francesco I persuadendoli alla provvisoria, fragile tregua. Non escludo che Andrea Doria fosse, oltre che sagace diplomatico, anche un gourmet, né che amasse il ricettario locale, sopravvive un documento che di fatto quantifica i budget mensili di una sua cuoca, Maria, specializzata proprio in torte (salate) e focacce. Nondimeno, connetto piscialandrea non all’Ammiraglio bensì alla provenzale pissaladière (Nice, Antibes…), e il lemma francese pissala(t) al catalano peis salat, così come sardenaira alle sardine, dalle quali – macerate – nel mortaio si ricavava machetto (macqué = ammaccato, pestato…), qualcosa di affine al famoso, o famigerato, garum*** e alla colatura di alici di Cetara (SA), dunque una “pasta” ben conservabile (eventualmente anche a bordo), ogni massaia ponentina custodiva una propria ricetta, ma niente spezie. Alle sardine poi successero, beninteso, anche – e poi sempre – acciughe e putine (gli avannotti), un poco meno amare, e meno pungenti al naso e al palato.
Appare forse superfluo enumerare tutti i nomi e le varianti con cui il “giacimento” sardenaira/piscialandrea presenzia – città per città, borgo per borgo – il meraviglioso Ponente ligure, sappi tuttavia (districando il caos lessicale) che in generale la sardenaira è a Sanremo, Taggia (anche fügassa), Badalucco (sardenaia, alla baucogna), talvolta ricorrendo come sardenaria, sardenara, sardenea…
La piscialandrea ad Imperia (anche piss(i)alandrea), Diano, Ventimiglia (pisciadel(l)a, e tutte le ventimigliesi che volessero maritarsi dovevano saperla fare in casa…), Perinaldo (pisciarà), Bordighera e Vallecrosia (pisciarà(da), cucinata anche senza acciughe), Camporosso (pissadala), Pigna pisc(i)arada ma anche vujun (assai varie le grafie)… A Ceriana poi gusterai il pan sciacau, a Dolceacqua la pasta cu a pumata**** /cun a bagna, ad Apricale la machetusa (fügassön), a Bussana la machetaia/machetaera, a Triora la crescenza, a Bajardo, infine, una ricetta che può caratterizzarsi grazie al brüssö (amico sulle malghe della carpasina “d’ordiu”), brüssö circa cui ti rimando ad altro numero di Liguria Food. Da parte mia ti sarò grato qualora vorrai segnalare errori o incompletezze nel mio elenco, sempre in progress.
Sia come sia, e a prescindere dal suo nome, ovunque incontri l’appetitosa sardenaira, che era “rito” soprattutto del venerdì, un DOC Riviera ligure di ponente Vermentino (come non pensare a Bussana?) si rivelerà partner ideale, viceversa se aggiungi pomodoro, e ormai si procede generalmente così, scegli un rosato, ad esempio un DOC Pornassio Sciac-trà, ovvero la declinazione ligure del vitigno dolcetto (e credo che le dispute fra Clavesana e Del Carretto possano narrarti qualcosa circa quel salto da Ormea verso il mare). E sia come sia, la sardenaira – come la torta verde – altro non sarà che l’ennesimo, virtuoso pretesto per visitare la Liguria di Ponente e un luogo come Sanremo, che grazie ai patrimoni ambientali e culturali e agli eventi di richiamo ha scritto la storia di tanto turismo tricolore e internazionale… Ti raccomando, come sempre, di privilegiare forni e ristori che facciano uso di extravergine, il solo autentico mosto delle drupe.
Qui la ricetta della Sardenaira De.Co.
* prima di Louis Pasteur (1822-1895) e della rivoluzione del Saccharomyces cerevisiae, le prolungate lievitazioni si effettuavano ovviamente coi pre-fermenti (quelli che oggi classifichiamo in pasta madre, pasta di riporto…), qualche massaia – Val Nervia e dintorni? – talora può ancora aggiungere all’impasto, per ammorbidirlo, anche purea di patate…
** ma talora anche alloro, o timo, o maggiorana, finanche rosmarino…
*** per un’estesa descrizione del garum (anzi dei garum, i pregiatissimi e i “plebei”), consulta ad esempio U. Curti, Tempo Mediterraneo. Quel che resta di Apicio in cucina, ed. La vigna, Genova, 2010
**** pumata mi pare sposo naturale del francese tomate…
Articolo di Umberto Curti