di Umberto Curti
La Spezia (il cui centro, ricco di musei, merita soste non frettolose) è un viaggio appassionante anche nella gastronomia tradizionale, ma da lì sarebbe delittuoso rinunciare a Lerici e Porto Venere, e a Lerici intendo il castello, possente poligono fuso alla roccia per sovrastare dal promontorio la baia, intendo Villa Marigola, dimora “al mare” settecentesca con giardino mediterraneo, e intendo il ricordo vivido di Shelley e Byron. Così come a Porto Venere intendo anzitutto la chiesa di San Pietro, ducentesco gotico-genovese bicromo, fra rocce a strapiombo sulle onde (dinanzi all’isola Palmària), oggi significativamente patrimonio dell’umanità UNESCO…
Lerici ha di fatto origini etrusche, e Porto Venere fu fondata dai Romani come stazione litoranea fra Luni e Tigullio. Ha restituito al Varignano (insenatura delle Grazie) resti della villa, col celebre frantoio, riferibile alla fine del II secolo a. C. o inizio del I, luogo a lungo descritto da archeologi e nel mio “Il cibo in Liguria dalla preistoria all’età romana”, edito nel 2012. Il minuscolo arcipelago antistante fu abitato – voga altomedievale – da anacoreti, fra cui Venerio (560 circa – 630). L’isola del Tino ha restituito anfore africane che attestano frequentazioni di matrice culturale romana, e al largo di Lerici giace un natante romano recante a bordo una colonna di marmo (le Alpi Apuane sono a un passo, e con le “tagliate” di scarto le famiglie iniziarono a disporre di mortai per pestare spezie, frutta secca…). La flora locale – e insulare – è meravigliosa ma chiede rispetto e cura, è ad esempio recente il ricordo dell’allarme legato al punteruolo rosso delle palme.
Gastronomia tradizionale… Amerei raccontare in dettaglio i finger food locali che seducono anche studenti di tutte le età e turisti di tutte le provenienze, e poi il cianpuriao, la pasta àa contadina (invernale, con verdure “povere”), le brosseghe, le torte verdi, la stopeta, le lumache, la cima, ed infine un’autentica regina di trattorie, la mes-ciùa, forse “Da Caran” e “All’inferno” sono nel capoluogo i due indirizzi più immediati per regalarsela. Malgrado sia zuppa vegetale, può talvolta affrontare con successo anche un cerasuolo…
Ma chi ama suoni, colori e odori del mare, in quest’area scopre – oltre ai naserti (sgombri) freddi ar vin gianco, alla buridda de peagallo (grongo), allo scabècio de anciöe, ai zemin, al porpo dei zavoristi, oppure sofegà… – anche la mitilicoltura, e le mille ricette che consente.
Essa rappresenta in Italia l’attività primaria di allevamento d’àmbito acquatico (per quantità produttive, numero d’insediamenti…). Scorrendo online, peraltro, il breve saggio di Jacopo De Grossi Mazzorin “Consumo e allevamento di ostriche e mitili in epoca classica e medievale” emerge come tale attività già in epoca protostorica sia valsa a finalità commerciali, oltre che alimentari…
A La Spezia la mitilicoltura risale si può dire al 1887, tra Lerici e Porto Venere, promossa al tempo da due noti biologi-naturalisti, il mitico Arturo Issel (che in uno scritto del 1882 lucidamente localizzava nel golfo un habitat d’elezione) e Davide Carazzi, direttore del Museo Civico, che costantemente incoraggiò il primo impresario del settore, Emanuele Albano, giunto da Taranto nel 1887, e a propria volta diede alle stampe presso Hoepli, nel 1893, un Manuale di ostricultura e mitilicultura. Per decenni si usarono “ventie” d’erbe palustri e pergolari (o reste), oggi la tecnologia le ha sostituite con cime di nylon e reti plastiche. Ma tuttora la manutenzione delle strutture, e le verifiche ai muscoli, si effettuano tradizionalmente da bordo di uno speciale natante, detto schio, tozzo e senza timone, piatto, alto di fiancate, trainato a poppavia.
A La Spezia i mitili generano una microeconomia (1/20 dell’output nazionale) che vanta tuttavia valori anche culturali, poiché ancora s’attiene alle metodologie originarie, in vivai sostenuti da pali o galleggianti. L’allevamento s’effettua presso aree marine a concessione demaniale, è prevalente la palificazione (un tempo, di castagno) a Porto Venere e isola Palmària, il fusto di galleggiamento a ridosso della diga foranea presso Le Grazie, dove fondale e correnti aumentano.
I mitili, una volta raccolti, vengono anzitutto trasportati al vasto impianto di stabulazione e filtraggio di Santa Teresa (Comune di Lerici), in funzione ormai da 35 anni, e costantemente rinnovato. Gli standard di qualità e sicurezza sono elevatissimi, trattandosi di materia prima soggetta – ovviamente – a specifiche normative di tutela della salute del consumatore.
Perché tanto successo, a La Spezia? Il livello di salinità, il plancton…, fattori che rendono eccezionali i muscoli spezzini, non a caso golosamente presenti tanto nei menu dell’alta ristorazione quanto nei pasti della quotidianità famigliare.
Nondimeno, in un contesto complesso qual è orograficamente il territorio spezzino, la mitilicoltura deve interfacciare il proprio futuro ad un ecosistema fragile, che va salvaguardato anzitutto da numerose pratiche umane dissennate e da abusi, da sostanze immesse in mare, da moli e manufatti ostativi delle correnti, diportismo indisciplinato, rialzo termico delle acque…
Con questi muscoli pregiati la cuciniera ligure si è creativamente sbizzarrita: stecchi nell’ostia, muscoli al verde, zuppa di muscoli, paste col sugo di muscoli, muscoli ripieni…
Propongo una mia semplice ricetta spezzina per 4/6 commensali, potete trovarla nella sezione ricette del sito.