La produzione d’olio d’oliva è già, da fonti archeologiche e letterarie, connaturata al mondo greco e romano. Ubi olea…ibi societas. Ad olivi ed olii si riservarono non a caso grandi attenzioni legislative ed agro-tecnologiche. Si noti che, sotto Costantino, Roma garantiva ormai ben 2.300 distributori gratuiti di olio, per incontrare anche le necessità dei ceti meno agiati…
“Due sono i liquidi graditissimi all’uomo, il vino dentro e l’olio fuori del corpo (…) ma gli olii sono necessari” sentenziò Plinio, che nella Naturalis Historia menziona 48 medicamenti a base d’olio. E’ sempre Plinio a riferire la modifiche apportate verso la metà del I sec. a. C. ai torchi di tipo “catoniano”, ispirate a modelli greci.
I luoghi della produzione furano le cosiddette villae, spazi rurali vasti e organizzati. Nei torchi il residuo scorreva sino ad una vasca sdoppiata affinché olio e acqua di vegetazione si separassero. Ora finalmente sappiamo che quest’acqua, sino a ieri di scarto, contiene idrossitirolo, un prezioso antiossidante ed antinfiammatorio.
In Liguria, al Varignano, un frantoio (torcularium), antico di duemila anni, sopravvive presso la pars fructuaria della villa vicino a Portovenere. Si tratta di due torchi “catoniani” ed una cella open air per la conservazione dell’olio da vendita, in genere stivato dentro file parallele di dolia infissi nella terra sino alla spalla. Travasato poi nelle anfore, si caricava su carri. E’ purtroppo andata perduta la mola di frangitura. Il complesso, identificato, tutelato e via via restaurato dal 1965, sorge fronte mare sulle pendici NE del colle Muzzerone, fra la baia del Varignano e l’estremità Est delle Grazie. Durante il I secolo a. C. pare verosimile s’estendesse ad oliveto per circa 120 iugeri (30 ha), “ascendendo” un’area asciutta, sicura e panoramica, al riparo da venti e calure eccessivi.
“La banchina in opera incerta racchiudeva un tranquillo e protetto specchio di mare: la darsena della villa rustico-residenziale del Varignano Vecchio, vasto complesso insediativo con impianti produttivi, costruita nei primi anni del I secolo a.C. al centro di un fundus semi collinare affacciato sul seno del Varignano. La grande villa maritima sfruttava il fondo pianeggiante di una scoscesa valletta ricca di acque dolci, incastonandosi fra due propaggini collinari protese sul mare, che come due braccia la proteggevano dai venti perniciosi e dalle tempeste marine. Al fondo della baia le acque mantenevano un moto costante e tranquillo, che favoriva l’approdo e la sosta di navigli e piccole imbarcazioni. La pars urbana della residenza era abitata dal dominus e dalla sua famiglia, imprenditore e proprietario del fundus che produceva olio nella pars fructuaria“ (cfr. L. Gervasini (a cura di), Per un’archeologia del cibo, ed. Prepress, Genova, 2005, scheda 16).
Pertanto questo recupero dimostra che l’olivo presenziò la Liguria ben prima che monaci di ritorno dalla Terrasanta vi introducessero la cultivar taggiasca, forse dalla Palestina o comunque dalle zone donde originerebbe anche la vite (Caucaso, Iran, Siria). L’archeologia accenna infatti a pollini di olea in Liguria sin dal 3000 a.C., e seguendo lo storico Tucidide si può ben dedurre che “I popoli del Mediterraneo cominciarono a uscire dalla barbarie quando impararono a coltivare l’olivo e la vite”. Olea prima omnium arborum est (Columella).
Nella Liguria romana l’olivo fu, come la vite, corredo di seminativi, così svelano le prime centuriazioni sulla Magra e sul Centa.
Le cultivar nominate al tempo, la pausia (dalle drupe odorose, forse la dolce pasola tipica ad Andria), la regia (olii tenui), la liciniana (in Columella oliva del Venafro), la orchite (orcade, comune anche in Spagna), la sergia ed altre (salentina, colminiana, albicera, svergina, biancaccia…), purtroppo non “linkano” il presente.
Purtroppo, al pari delle viti, gli olivi poi scontarono il crollo di Roma. Del Varignano stesso si occuparono durante l’alto medioevo i benedettini dell’isola del Tino (come noto, anche la religione cristiana attribuisce all’olivo infiniti valori simbolici). Nei cenobi operavano eccellenti botanici, speziali, studiosi…, a costoro si deve gran parte delle sopravvivenze economico-culturali di un tempo in cui il progressivo disfarsi di Roma aveva prodotto voragini in ogni campo del sapere e agire umano.
In Liguria, dal basso medioevo, come intuito e ribadito da Giovanni Rebora, l’appeal commerciale dell’olio ripropose intense specializzazioni produttive, e diacronicamente, malgrado le alte pendenze collinari, gli abbandoni, l’avanzata arbustiva… fa sì che la Liguria vanti oggi un marchio DOP “Riviera Ligure” fra i più apprezzati, grazie ad agricoltori che Gino Veronelli non esitava a definire “angeli matti”. Ecco le fasce verticali, paesaggio antropico caratteristico della Liguria, ecco le terrazze di muretti a secco dove talvolta fa capolino squisito preböggion per i ravioli e le torte salate…
La taggiasca rappresenta la cultivar più nota, inconfondibile ad un occhio allenato (drupa ovoidale, di medie dimensioni, epicarpo pruinoso, invaiatura media e graduale, rapporto polpa/nocciolo medio 5.30, epidermide nera, polpa nero-vinata). Tuttavia un “censimento” delle varietà liguri aggregherebbe circa 42 cultivar differenti (infiniti i sinonimi locali!), alcune abbandonate a causa di basse rese, e/o di particolari vulnerabilità. La taggiasca stessa teme freddo, vento e umidità, e propone modeste resistenze a bactrocera, pseudomonas, cycloconium, fomes geotropus, armillaria.
Occorre poi distinguere fra olive da olio (in Liguria arnasca, colombaia, lantesca, merlina, mortina, negrea, olivotto, pignola, rondino) ed olive sia da olio che da mensa (castelnovina, lavagnina, liccione, prempesa, razzola, taggiasca).
La denominazione d’origine, istituita nel 1997, prevede 3 menzioni geografiche integrative. La sottozona Riviera dei Fiori allude ad olii ottenuti da oliva taggiasca per almeno il 90%. Solitamente propongono un colore giallo tenue, e note al naso dal carciofo alla mandorla, anche in bocca abbastanza durature, il tutto in un quadro ben bilanciato di morbidezza e dolcezza…
La sottozona Riviera del Ponente savonese (terra anche olive arnasca e colombaia) allude ad olii ottenuti da oliva taggiasca per almeno il 50%. Solitamente propongono un colore giallo tenue con riflessi verdolini, al naso la nota può risultare un poco più fruttata, ed in bocca amaro e pungenza si bilanciano piacevolmente, con sfumature talora anche di mela…
Infine la sottozona Riviera di Levante allude ad olii ottenuti da cultivar quali lavagnina, razzola, pignola e la locale frantoio per almeno il 55%. Solitamente propongono un colore giallo dorato con riflessi verdolini. Il naso regala spiccata freschezza, ora d’erba ora di carciofo, in bocca riescono fluidi, morbidi, bilanciati, con pungenza sempre avvertibile, e gustativamente confermano erba, carciofo, mandorla…
Nel complesso, si evince come le condizioni pedoclimatiche e il millenario know-how agricolo favoriscano in Liguria la produzione d’olii gentili, delicati, ma nei quali cogliere sottilmente l’eleganza del frutto, la freschezza, e alcune note pulite – caso per caso – di carciofo, frutta secca… Sono olii, dunque, ottimali con insalate leggere, polpo e patate, pasta con frutti di mare, passati di verdura, pesci e carni bianche ove cucinati non invasivamente.
Ricetta di Umberto Curti (per maggiori info qui).