di Sergio Rossi
Non parliamo poi delle sfoglie entro le quali racchiudere il ripieno, sul numero delle quali – da un minimo di due a un massimo di trentatré, come gli anni di Cristo – non si raggiungerà mai un’intesa che accontenti tutti. È la bella storia della cucina italiana, della sua ricca varietà e delle piccole e grandi rivalità di campanile che rendono unico e prezioso il nostro patrimonio gastronomico. Ciò che però mette tutti d’accordo è l’importanza delle torte pasqualine nella tradizione ligure, della quale sono certamente un autentico simbolo. Si preparano lungo tutto l’arco regionale, dall’entroterra alla costa, e da secoli sono fra le specialità più citate e celebrate nei ricettari di cucina, nelle cronache e nelle descrizioni di Genova e della Liguria. Nomi locali talvolta differenti (turtellu, torta verde, torta d’erbi, baciocca…) descrivono sempre una preparazione a base di verdure e formaggio fresco racchiusa fra più sfoglie sottilissime. La lunga storia della torta pasqualina ha radici profonde nel passato. Se ne trova traccia documentale dal Medioevo, anche se è presumibile che le origini siano assai più antiche. Nei secoli passati – e ancora oggi – questa specialità gastronomica è sempre stata presente nelle botteghe, nelle trattorie e nelle case dei liguri. Genova è da sempre associata a queste torte ma si sa che dove esiste un porto così importante e una città così attiva nell’economia mediterranea, il riferimento a essa è spesso generico e abbraccia tutto il territorio regionale che la comprende. In ogni caso, Genova compare già nelle prime attestazioni relative alle torte di verdura, a partire dal Libro de arte coquinaria compilato da Martino de’ Rossi da Como (XV secolo) a metà del XV secolo. Il grande Maestro parla di Torta alla Zenovesa di spinazi o de cepolle, indicando due varianti che ritroveremo anche un secolo più tardi: è una attestazione importante che attribuisce un’identità geografica alle antenate delle odierne pasqualine. E se non è raro riscontrare contraddizioni fra attribuzioni come questa e la realtà, i documenti e le testimonianze successive confermano quanto scritto da Martino de Rossi. Nei documenti del XVI secolo si trovano, infatti, altri riferimenti alle torte genovesi e si registra la diffusione del termine gattafura. Si si è scritto molto sul significato e sull’origine di questa parola, ma per ora l’etimologia rimane incerta nonostante quanto scritto a metà Cinquecento da Ortensio Lando (1512-1559 circa), cioè che
a Genova si fanno certe torte dette gattafure perché le gatte volentieri le furano e vaghe ne sono, ma chi è sì svogliato che non le furasse volentieri? A me piacquero più che all’orso il mele.
In realtà il medico piacentino ironizza su molte altre specialità alimentari e riesce perfino a individuare chi ha inventato prodotti alimentari e delizie gastronomiche già allora popolari. Quindi non è tanto importante quale significato egli attribuisca al termine gattafura, bensì che leghi la specialità a Genova. Di tenore differente è la citazione di Bartolomeo Scappi (1500-1577), forse il più importante cuoco rinascimentale, che nel 1570 scrisse l’Opera, dell’arte del cucinare, uno splendido ed esauriente trattato di cucina nel quale compaiono due ricette per fare Gattafura alla Genovese con le bietole o con le cipolle, come già suggerito da Martino de Rossi. Da questo momento in avanti sono molte le citazioni della gattafura collegata a Genova, città in cui
fra le vie che sono di recreazione, fuori le mura della Città, è la strada di Besagno et altra vicina che sono borghi di due miglia lunghi, qual altre città, poiché e palazzi e ville e botteghe non vi mancano, come ancora bettole dove si vende quella sorte di vivanda che loro chiamano gattafura e migliacci e castagnacci. Questa gattafura è molto in uso in questa città, non che nella villa, et è fatta in modo di torta, ma non ha che fare con le torte di Lombardia, o, per dir meglio, con le romane: e parlo delle commune, perchè so bene che li gentiluomini usano sino di far torte con canditi, non che con altro (Giovanni Battista Confalonieri 1561-1648).
La gattafura è dunque una specialità popolare che la gente compra nelle bettole lungo le strade e che è differente dalle torte che si fanno in altre regioni o dalla versione “ricca”, appannaggio dei soli gentiluomini. Nel corso del secolo successivo è Francesco Fulvio Frugoni (1620-1686), religioso e scrittore genovese, a indicare le gattafure come il cibo dei liguri. Nel suo Cane di Diogene le colloca sulla fantastica isola di Gastrimargia, situata nel mare della Broda, dove
…ogni casa è macello, ed ogni bottega è taverna. Quivi l’Insubrio trova la Busecca, il Ligure la Gattafura, il Partenopeo la Foglia, il Sicano i Maccheroni…
Per tutto il Seicento si susseguono le citazioni della gattafura associata ai liguri, e il poeta genovese Giliano Rossi (XVII secolo) le dedica il poemetto Lode dra Gattafura. Siamo prossimi al tramonto del termine gattafura che, nel corso del Settecento, cadrà in disuso per lasciare spazio a torta di Pasqua o torta pasqualina. A quest’ultima Martin Piaggio (1774-1843), noto poeta genovese, dedica un sonetto che ne esalta la bontà (La torta pasqualina). Con l’Ottocento e l’uscita delle Cuciniere (1863 e 1865) si consolida la dicitura Torta Pasqualina e la precisa descrizione della ricetta che la distingue da tutte le altre torte di verdura, definite cappuccine o cappucce. La prima sarebbe fatta di sole bietole e prescinseua separate e poste su due strati sovrapposti, le seconde sarebbero preparate anche con altre verdure ma mescolate assieme a uova, formaggio grattugiato, erbe aromatiche ecc. a formare un composto omogeneo. Non si tratta di una definizione “vincolante”, poiché oggi, nel gergo comune, in Liguria si tende a generalizzare chiamando torte pasqualine anche quelle con la verdura mescolata nel ripieno. E anche se è corretto segnalare questa attestazione, trovo non sia il caso di inseguire un’ortodossia inesistente, spesso solo nostalgica, salvo rispettare i nomi locali tradizionali. Nel secolo scorso la testimonianza forse più significativa la offre il giornalista genovese Giovanni Ansaldo (1895-1969), che in occasione della Pasqua 1930 scrive il memorabile articolo “Le ventiquattro bellezze della torta pasqualina”. Lo dedica alla Scià Carlotta, Ostessa in Sottoripa, a Genova, indicando in ventiquattro punti salienti i passaggi decisivi che fanno di quella pasqualina una delizia incomparabile.
Tutt’oggi la popolarità e il gradimento per la torta pasqualina non accennano a diminuire e il tempo ci ha consegnato molte variante declinate secondo le stagioni, le preferenze personali o le disponibilità locali di verdure particolari. Per fare una buona torta pasqualina occorre la pasta adatta per essere assottigliata fino alla trasparenza, in modo che si possano sovrapporre più strati di sfoglie senza appesantirla. Poi ci vogliono le verdure adatte allo scopo, e fra le più popolari rimangono le bietole, i carciofi, i porri e quell’insieme variabile di erbe spontanee che i liguri chiamano prebuggiun. Occorre, quindi, una buona prescinseua, formaggio fresco, leggermente acidulo, che vanta una tradizione documentata da almeno otto secoli e si trova in commercio solo in Liguria. Infine, non possono mancare le uova fresche, depositate a crudo sul ripieno prima di porre il “coperchio” di sfoglie che ultima la torta. C’è chi usa il solo tuorlo e chi invece lascia l’uovo intero: questione di gusti. Una raccomandazione, però, è d’obbligo e riguarda le sfoglie di copertura. C’è stato un tempo in cui la torta, a fine cottura, doveva presentarsi a forma di cupola: la gente la preferiva così e c’era chi, maldestramente, gonfiava le sfoglie con l’aiuto di una cannuccia per poi rimuoverla chiudendo il forellino rimasto. A casa propria ognuno fa come crede, ma i veri professionisti, quelli che le torte devono venderle, non hanno alcuna volontà di regalare ai clienti il proprio alito e si limitano a produrre il medesimo effetto poggiando la sfoglia da un lato del tegame e scuotendola verso l’alto come si fa per togliere le pieghe alla tovaglia sul tavolo. È un movimento che imprigiona l’aria sotto la sfoglia lasciandola gonfia nel momento in cui si salda con la pasta sottostante. Più facile farlo che spiegarlo a parole.
La torta pasqualina è tutt’oggi parte essenziale del patrimonio gastronomico ligure. Si tratta di un vero e proprio simbolo della cultura regionale declinato in decine di varianti, nate dalle più differenti condizioni locali ma tutte figlie dell’abitudine di racchiudere un buon ripieno fra due strati di pasta.